
Reporter, quando raccontare la verità diventa terapia e condanna
Mi sono sempre chiesto cosa spinga davvero una persona a scrivere, quale forza misteriosa ci attragga verso i libri, quei vecchi oggetti fatti di carta e inchiostro che, nonostante l’avvento feroce del digitale, resistono come simboli sacri in ogni casa. Forse perché, in fondo, scrivere è il più potente atto di resistenza all’oblio che l’uomo abbia mai inventato: racchiudere idee, emozioni, sensazioni, esperienze, dolore e speranze, sigillarle nelle pagine affinché sopravvivano al tempo. O forse perché quell'inconfondibile odore che associamo ai libri, risultato della lenta decomposizione della lignina presente nella carta, un processo chimico che produce sostanze aromatiche dolciastre come la vanillina, risveglia in noi nostalgia, intimità, la memoria di qualcosa di prezioso e fragile.
Da quando ho iniziato il mestiere del reporter, ho capito che non era semplicemente un lavoro, ma una vera e propria missione. Una responsabilità morale. Credo profondamente che ogni giornalista, ogni scrittore, fotografo o videomaker che scelga di raccontare il mondo debba essere disposto non solo a denunciare le ingiustizie, ma anche a lottare perché qualcosa cambi davvero.
Eppure, mi rendo conto che nessuno ha veramente bisogno di Gerardo Fortino per sapere dei bambini soldato, delle discariche di Dandora, di Antananarivo o di Agbogbloshie. Nessuno ha bisogno che io racconti della camorra, delle miniere di zaffiri in Madagascar o del sovraffollamento delle carceri africane. Eppure, sento che questo mio raccontare non possa ridursi alla semplice cronaca. Chi entra profondamente a contatto col male ne resta segnato per sempre, ne viene inghiottito. Ogni orrore visto, udito e respirato si deposita dentro di te, ti accompagna in ogni passo, emerge nei silenzi della notte come un'ombra inquieta.
Quando ho iniziato a scrivere volevo ingenuamente cambiare il mondo. Credevo che bastasse denunciare la discarica di Dandora in Kenya perché questa smettesse di esistere. Ricordo ancora le mie aspettative ingenue quando uscì il mio primo libro, i complimenti, gli elogi. E poi? Poi il libro rimase lì, in silenzio sugli scaffali delle librerie, soffocato dalla polvere dell’indifferenza. Alcuni di quegli scaffali erano moderni, di truciolato, economici; altri forti, robusti, di legno massiccio, simboli di case antiche e benestanti.
Nel 2019, quando documentai la grande discarica di Antananarivo, in Madagascar, decisi che non mi sarei limitato a descriverne l’orrore: andai a caccia della verità nascosta dietro quei rifiuti, cercai nomi e cognomi, responsabilità precise. Scoprii un sistema violento e malato, dove più del 60% della plastica riciclata globalmente proviene proprio da quei disperati raccoglitori. Ricordo ancora l’odore nauseante di quei luoghi, acre, soffocante, che paralizzava il respiro e ti trascinava ai limiti della resistenza umana. Migliaia di vite continuano ancora oggi a esistere sospese tra la sopravvivenza e l’inferno quotidiano.
L’Africa che ho conosciuto non è povera per destino, è stata impoverita da un sistema perverso di aiuti umanitari. Tra il 2007 e il 2015, secondo l’OCSE, sono stati versati in Africa 515,8 miliardi di dollari. Ma quegli aiuti non hanno generato sviluppo, bensì dipendenza, arricchendo i potenti e degradando ancora di più i fragili.
Quante volte, ingenuamente, ho pensato che le mie parole potessero cambiare tutto questo. Quante volte ho dovuto accettare l’impotenza, raccontando di corpi spezzati, donne violentate, giovani costretti a impugnare armi troppo pesanti per le loro mani ancora fragili.
Fare il reporter è una droga assurda, crudele. Ti nutri della realtà, la rincorri senza tregua, convinto che l’informazione autentica possa davvero fare la differenza. Ma poi tutto finisce per trasformarsi in una pornografia del dolore. La sofferenza viene consumata, strumentalizzata, divorata dal pubblico, trasformata in profitto, intrattenimento perverso per un mondo che sembra provare un macabro piacere nell'osservare l’agonia degli altri.
Scrivo di notte perché la scrittura è diventata la mia terapia, la mia speranza che qualcosa possa ancora cambiare. È come se, fissando le parole sulla pagina, potessi ingannare l’eternità, sfuggire all’inutilità del mio stesso racconto. Ecco, forse scrivo questo perché sto cercando di dare un senso nuovo a tutto ciò, o forse è solo l’inizio di un altro libro, un tentativo disperato e necessario di trovare ancora un senso nella verità che inseguo ogni giorno.
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