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Enjambement narrativo: l’arte di far respirare la frase oltre i suoi confini

  • Immagine del redattore: Gerardo Fortino
    Gerardo Fortino
  • 25 mar
  • Tempo di lettura: 3 min

enjambement narrativo
Immagine generata con AI

Enjambement: In principio c’era la fine della frase. Poi venne il passo successivo


C’è un modo di scrivere che non si ferma dove finisce la frase. C’è un modo di raccontare che vive di slittamenti, di piccoli sbilanciamenti, di parole che sporgono come rami troppo lunghi in un giardino di grammatica ordinata. Questo modo di scrivere ha un nome colto, francese: enjambement narrativo. Ma al di là del suono elegante, è un gesto semplice. Un gesto naturale. Quello che facciamo quando parliamo con qualcuno e non vogliamo interrompere il pensiero, anche se ci manca il fiato.


Cos’è davvero l’enjambement narrativo?


Nel mondo della poesia, l’enjambement è quella figura retorica che porta una parte del significato da un verso al verso successivo, senza chiudere il pensiero. Nella narrativa, questo si traduce in uno scivolare, in un fluire di idee da una frase all’altra, come se la punteggiatura fosse solo un appoggio, non un confine. Come il respiro che prosegue anche quando la bocca tace.


È scrivere così:


La lettera era ancora lì. Piegata, maldestra, come certe promesse. Quelle che si fanno a chi parte. Quelle che si rompono con chi resta.

Non c’è una chiusura netta. Non c’è un punto fermo definitivo. C’è un filo. E quel filo tiene insieme, trattiene, accompagna.


Perché usarlo? E perché oggi ce n’è bisogno più che mai?


Viviamo tempi frammentati. Frasi corte, titoli urlati, slogan ripetuti fino alla nausea. Eppure, l’esperienza umana non è fatta di compartimenti stagni. I pensieri non iniziano e finiscono come tweet. Le emozioni non rispettano la grammatica.


Usare l’enjambement narrativo significa onorare la complessità. Significa dare spazio a quel respiro interiore che non vuole spezzarsi con un punto. Significa ammettere che ogni cosa – ogni frase, ogni storia – ha un prima e un dopo. E che spesso vive proprio nel passaggio tra le due.


Ho visto gli occhi di un uomo morire. Ma le sue mani tremavano ancora.

Qui l’enjambement narrativo diventa un gesto poetico. La continuità tra frasi non è solo sintattica, è esistenziale.


Esempi autorevoli (e un po’ nascosti)


Nei romanzi di José Saramago, la punteggiatura è fluida, il pensiero scivola da una parte all’altra, senza rigidità. Nei reportage di Ryszard Kapuściński, l’osservazione e la riflessione si fondono in paragrafi che sembrano una sola lunga frase trattenuta.


E poi c’è Tiziano Terzani (autore che amo), la cui scrittura sembrava non finire mai veramente:


“C’è un momento, nella vita di ciascuno, in cui si sente il bisogno di partire. Ma non per fuggire. Per capire. Per ritrovarsi.”

Tre frasi. Ma è evidente che una porta dentro l’altra. Non si spezzano. Non si dichiarano. Si completano.


Come applicare l’enjambement nella narrativa, senza scadere nella retorica


Collega le frasi con ritmo: non tagliare il pensiero. Lascialo fluire.
Usa la punteggiatura come pausa, non come cesura: il punto fermo può essere forte, ma anche tenero. Non sempre deve urlare.
Cerca la verità tra le righe: spesso la potenza dell’enjambement sta in ciò che non è detto, ma si intuisce nel passaggio.

Le sue parole erano pesanti. Ma non dette. Solo pensate. Solo lasciate lì, tra un silenzio e l’altro.

Scrivere così è come camminare per una città sconosciuta. Non sai dove finisca una strada e cominci l’altra, ma continui. Perché è il cammino che conta, non il cartello che lo divide.


L’enjambement narrativo è quella continuità fragile ma necessaria che tiene in piedi le storie vere. Quelle che non si raccontano per stupire, ma per capire. Quelle che non si leggono per sapere, ma per sentire.


 


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