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LETTERA DALL'INFERNO

Immagine del redattore: Gerardo FortinoGerardo Fortino

Discarica di Dandora
Discarica di Dandora

Lettera dall’Inferno: Un Viaggio Attraverso il Dolore e la Memoria


Lettera dall'inferno: Dandora Girone 1


Lettera dall'inferno: C’è un posto nel mondo dove la vita e la morte si confondono nella spazzatura. Un posto dove uomini, donne e bambini si muovono come ombre tra montagne di rifiuti fumanti, dove i piedi affondano nella melma nera di un futuro che non arriverà mai. Io l’ho visto. E non potrò mai dimenticarlo.


Il cielo è grigio, pesante. L’aria sa di plastica bruciata, di marciume, di scarti di un’umanità che non ha più bisogno di loro. Qui, tra i cumuli di spazzatura, si scava. Si cerca qualcosa. Un pezzo di ferro, una bottiglia di plastica, un avanzo di cibo non ancora del tutto marcio. Non si cercano sogni, non si cercano speranze. Solo oggetti. Qualsiasi cosa che possa valere pochi centesimi e permettere di sopravvivere un giorno in più.


Un tempo credevo che l’inferno fosse un concetto astratto, una minaccia per tenere a bada gli uomini. Ma poi sono venuto qui.


Qui la vita è una lotta contro i rifiuti e con i rifiuti. Qui i bambini imparano prima a frugare tra le ossa degli animali morti che a leggere il proprio nome. Qui, tra uomini e avvoltoi, la differenza è sottile.


Guarda quell’uccello. Un marabù. Il suo becco affilato affonda nella sporcizia, cerca brandelli di carne, un resto di qualcosa che un tempo era vivo. È grande, possente, sembra uscito da un racconto mitologico, da una profezia apocalittica. Ma non è solo. Accanto a lui, tra le stesse immondizie, c’è un uomo. Fa la stessa cosa.


Questa è la legge di questo posto: o mangi o sei mangiato.


I camion arrivano, sversano tonnellate di scarti, e gli uomini si precipitano. Devono essere veloci, devono essere i primi a trovare qualcosa di utile. L’aria si riempie di polvere, il fumo sale. Si tossisce, si lacrimano gli occhi. Ma nessuno si ferma. Se ti fermi, sei morto.


Qui, nell’inferno della discarica, ci sono esseri umani che non hanno più nemmeno il diritto di essere chiamati tali.


Madagascar prigioni
Prigioni in Madagascar

Lettera dall'inferno: Madagascar Girone 2


Il carcere è il luogo dove l’umanità smette di esistere. Non perché chi è rinchiuso qui abbia perso il diritto di essere uomo, ma perché il mondo fuori ha deciso che non è più degno di esserlo. E così li dimenticano.


In Madagascar le prigioni non sono fatte di sbarre e cemento, non sono un posto in cui si sconta una pena, ma un limbo in cui si marcisce senza tempo. Si entra e non si sa quando, o se, si uscirà. Qui la punizione non è la privazione della libertà, ma quella della dignità.


Guarda questa immagine. Non è sonno, è resa. Non c’è più spazio tra un uomo e l’altro, i corpi si incastrano come mattoni, senza aria, senza distanza, senza identità. Si dorme a turno, uno sull’altro. Se si riesce a dormire. Si condivide il respiro, la pelle, il sudore, il fetore di giorni senza acqua.


La vera sentenza, per chi finisce qui dentro, non è scritta nei fascicoli, ma nei corpi che si consumano a poco a poco. Si muore lentamente, di fame, di sete, di malattie. Si muore aspettando un pasto che non arriva, guardando il compagno accanto diventare pelle e ossa, finché non smette di muoversi.


Qui un corpo morto non è una tragedia, ma solo un po’ più di spazio per chi resta.


E poi c’è il tempo. Il tempo qui dentro non esiste. Non c’è un orizzonte, non c’è un futuro. Solo attesa. Attesa di cosa? Della libertà? Di un processo? O forse solo della fine.


Questa non è una prigione. È un cimitero di uomini ancora vivi.


Lettera dall'inferno: Congo Girone 3


Malnutrizione Congo
Repubblica Democratica del Congo

Un bambino scheletrico e muto. Un corpo così leggero che la morte lo solleva senza fatica. Un respiro così flebile che il vento potrebbe spegnerlo. Io ho fatto questa foto. Io ero lì, davanti a lui. Ho premuto il pulsante, ho inciso per sempre sulla pellicola il marchio dell’orrore. Eppure, cosa è cambiato? Nulla.


Un tempo credevo che la fotografia potesse fermare il tempo, dare voce a chi non ne ha più, costringere il mondo a guardare. Ora so che il mondo guarda e poi volta pagina. Guarda e dimentica. Un’immagine non ferma un genocidio. Non nutre questo bambino. Non lo strappa alla morsa della fame.


La fame è una morte senza violenza apparente, ma non meno brutale. È una guerra silenziosa, un massacro senza esplosioni. Mentre nei campi di battaglia si sventrano i corpi con i machete e si bruciano le donne dopo averle stuprate, nei villaggi e negli ospedali i bambini si spengono lentamente, come candele consumate.


Questa è la Repubblica Democratica del Congo. Qui la morte ha due facce: una è feroce e immediata, l’altra è lenta e inesorabile. Qui si uccide con le pallottole, con il fuoco, con i coltelli. Ma si uccide anche con l’assenza. Con il vuoto. Con lo stomaco che si contorce su se stesso, con la pelle che si tende sulle ossa fino a strapparsi, con il corpo che divora se stesso fino a non avere più nulla da consumare.


Io ho visto entrambe.


L’odore della morte è qualcosa che nessuno ti racconta. Ti avvolge, ti penetra, ti soffoca. È dolciastro e nauseante, un miasma di carne marcia, piscio rappreso, sudore vecchio e feci che si mescolano al sangue. È il fetore dell’umanità putrefatta, un tanfo che entra nei polmoni e non se ne va più.


Qui, in questa distesa di corpi gonfi e abbandonati alla polvere, la morte non ha più bisogno di nascondersi. Non si copre con teli bianchi, non riceve sepoltura. Si espone, sfacciata, con membra disfatte e viscere esposte agli avvoltoi. Le mosche ronzano tra i cadaveri, si posano sulle bocche spalancate, nei bulbi oculari esplosi dal tempo e dal sole. I topi banchettano senza fretta.


Un bambino sta lì, fermo, gli occhi vuoti, il braccio ossuto a premere un pezzo di straccio sulla bocca. Non serve a nulla. L’odore della carne morta non si ferma, ti entra nelle ossa, ti si incolla all’anima. È la firma indelebile di un genocidio.


Prigione di Muzenze: lo stupro come arma di guerra


Siamo scesi in uno dei gironi più profondi dell’inferno, un inferno che non è immaginato, non è metafora, ma carne viva che marcisce nel tempo sospeso della disperazione. Qui gli uomini non muoiono. Qui si disintegrano.


Sono carcasse che respirano a fatica, scheletri avvolti in brandelli di pelle, divorati dalla fame e dalla sporcizia. La carne si consuma su ossa troppo esili per sostenere il peso della vita. L’odore è un’arma invisibile, ti si insinua nei polmoni, ti si attacca addosso: è un misto di sudore, urina rappresa, sangue che ha smesso di essere liquido.


La notte è un lamento continuo. Non c’è pace nel ventre dell’orrore. Si sentono rantoli di chi muore in silenzio, urla di chi lotta per un centimetro d’aria, il suono sordo dei corpi che si scontrano nel buio per un pezzo di riso, per un’ultima speranza di sopravvivere un giorno in più.


Ma la peggiore delle atrocità è stata riservata alle donne. Le milizie dell’M23, soldati armati e finanziati dal Ruanda, dal suo presidente Paul Kagame, le hanno prese. Le hanno trascinate per i capelli sul pavimento lurido, lì dove si mescolano fango e sangue, lì dove il dolore non ha più bisogno di parole.


Nella prigione di Munzenze, quando l’assalto delle M23 si abbatté con furia, 3000 detenuti fuggirono nel panico, lasciando dietro di sé una scia di orrore. In quel caos infernale, 100 donne, o poco più, furono violentate, subendo violenze indicibili che svuotarono in un istante ogni traccia di dignità e speranza.


Non c’era via di fuga. Le bocche si riempivano di urla spezzate, le gambe si spalancavano sotto la forza brutale di chi vedeva in loro solo carne da squartare. Il ventre aperto da peni, da baionette, da tutto ciò che poteva ferire. Le sbattevano contro i muri. Le mordevano. Le sventravano.


Alcune erano incinte. Altre erano bambine.


Ma a chi importava?


Le hanno svuotate di ogni cosa: di dignità, di speranza, di vita. Le hanno riempite solo di violenza e di risate. Fino a quando i loro corpi si sono spenti, tra spasmi e singhiozzi soffocati.


E poi, quando non erano più divertenti, quando erano solo carcasse disfatte, quando non avevano più occhi da chiudere, le hanno bruciate vive.


Hanno versato benzina su quei corpi disfatti, ridotti a carne lacerata. E hanno acceso il fuoco.

Le fiamme hanno divorato la pelle.


Sciolto la carne.


Svuotato il dolore.


Solo ossa annerite.


Solo silenzio.


Il fumo acre della carne bruciata si è mescolato all’aria, si è attaccato ai muri, ai vestiti, alle anime di chi ha visto e non dimenticherà mai. Per giorni, per settimane, l’odore della morte ha impregnato ogni cosa.


Nessuno ha raccolto le ceneri.


Nessuno ha pianto per loro.


Goma: il rituale macabro del giovedì


E mentre qui dentro si cremano corpi come fossero sterpaglie, fuori, nelle strade di Goma, ogni giovedì la gente è costretta a pulire.


Pulire il sangue rappreso sull’asfalto.


Raccogliere pezzi di carne.


Spazzare via intestini sparsi tra la polvere e il fango. Ogni giovedì è il giorno della pulizia.


Un giorno in cui le strade vengono ripulite di braccia mozzate, di crani sfondati, di budella trascinate via dai randagi.


Un giorno in cui i bambini imparano a lavare via il sangue con la stessa naturalezza con cui dovrebbero imparare a scrivere il proprio nome.


Ormai sono stanco.


Ho visto l’inferno. Ho camminato tra i suoi gironi. Ho respirato il tanfo della morte, della fame, della disperazione. Ho premuto il pulsante della mia macchina fotografica con la speranza di fermare l’orrore.


Ma l’orrore non si ferma.


Il male ha riempito la mia anima.


Non c’è più spazio per nient’altro. Sono esausto di vedere gente morta.


 


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