top of page
  • LinkedIn
  • Instagram
  • Youtube
  • Facebook

Il mondo linguistico di Tolkien: quando la follia diventa arte

  • Immagine del redattore: Gerardo Fortino
    Gerardo Fortino
  • 24 mar
  • Tempo di lettura: 5 min

Terra di Mezzo
Immagine generata con AI

L’eredità linguistica di Tolkien


J.R.R. Tolkien
J.R.R. Tolkien 1925

La stanza puzzava di fumo stantio e di sogni infranti, come quelle taverne infestate da ricordi e rimpianti. Ma lì dentro, invece di baristi scontrosi, c’erano fogli e appunti pieni di parole che non avevo mai sentito. Non parolacce, ma suoni elfi, lucidi e cristallini. Era la roba di J.R.R. Tolkien, uno che da professore di Oxford si divertiva a inventare lingue. Che ci fosse qualcosa di matto e geniale in lui era chiaro come una bottiglia di whisky vuota.


Non solo creò romanzi con hobbit e anelli che incasinano la testa, ma ci aggiunse un’intera enciclopedia di idiomi, ognuno con regole, grammatica e un’anima. Il Quenya, con le sue vocali eteree, era ispirato al finlandese e suonava come un carillon immerso in un lago di luna. Il Sindarin, più aspro, ricordava il gallese, e giusto a sentirlo immaginavi colline nebbiose e guerrieri antichi. E poi il Khuzdul, la lingua dei nani, che pareva un ringhio in gola, un misto di ebraico e bestemmie di miniera.


Tolkien non si limitò a qualche parolina: costruì grammatiche, vocabolari, storie. Ogni singolo verbo, ogni consonante, aveva un significato e una culla d’origine. Studiava lingue antiche e le riplasmava come un fabbro col ferro rovente. L’Adûnaic, lingua perduta di Númenor, era un’eco di civiltà crollate. Per lui inventare parole era come per altri scolarsi un cicchetto a fine serata: una necessità, un rifugio dalla banalità.


Immaginalo mentre perfeziona la mutazione consonantica del Sindarin, con Oxford che sprofonda nel silenzio della notte. Forse gli Elfi gli parlavano in sogno, sussurrandogli verbi e suoni che nessun altro aveva mai sentito. E lui, sfinito, chiudeva i taccuini con la soddisfazione di un re che torna dalla battaglia con nuove conquiste linguistiche.


Qualcuno potrebbe dire: “Ma a cosa servono lingue che nessuno parla?”. Il punto è che Tolkien cercava la bellezza, non l’utilità. Una lingua senza un popolo è come un bar senza ubriaconi: muta, noiosa. Così scrisse leggende, genealogie, poesie, per dare a quelle sillabe un posto in cui vivere. Non era solo un “vecchio polveroso” incastrato nei libri, ma un tizio con la fantasia in fiamme, come un chitarrista maledetto in un locale vuoto: forse nessuno ascolta, ma lui suona lo stesso.


Io me lo immagino, notti su notti, chino su simboli e rune, mentre il resto del mondo dorme. Forse un po’ matto, forse un genio, o magari solo uno che preferiva i Silmaril alle scartoffie. E anche se non useremo mai il Quenya per ordinare un caffè, possiamo alzare un bicchiere alla follia di chi osa inventare. La vita spesso fa schifo e ci spegne come mozziconi, ma almeno Tolkien ci ha regalato un sogno di parole, un posto dove ripararci quando fuori piove amarezza.


Grazie, professore di Oxford, con l’aria placida e la mente in subbuglio. Ogni volta che apro un tuo libro e mi perdo in quei nomi impronunciabili, mi sembra di afferrare un brandello di cielo. Che fosse gallese, finlandese o un assurdo incastro elfico, non importa. L’importante è che qualcuno abbia il coraggio di scrivere storie e idiomi, invece di arrendersi alla noia. Quando gli anni passano e la bottiglia è sempre mezza vuota, Tolkien rimane lì, con le sue frasi fatate, a ricordarci che anche i sogni possono avere un vocabolario.


E se un giorno vi sentite troppo sobri, date un’occhiata a quei suoi appunti, a quelle fricative e quei dittonghi misteriosi. Magari vi scapperà di inventare una parola nuova, e allora sarete già nel suo club di insonni e sognatori, con un lessico segreto che rende la vita meno amara. In quell’istante sarete altrove: in un paese senza confini, dove l’idioma che parli rispecchia il tuo cuore e ti libera dalle catene del reale.


Molti ci hanno provato dopo di lui, ma il suo incantesimo linguistico resta ineguagliato. Ogni volta che qualcuno apre un manuale di elfico, entra in quel regno di meraviglia e dedizione che Tolkien ha lasciato in eredità. Forse non ci saranno mai lunghe conversazioni in Quenya, ma la magia di quei suoni continuerà a vibrare, ricordandoci che un uomo con un taccuino, un sogno e un mucchio di radici lessicali può ancora scolpire nuove realtà e farci credere, anche solo per un attimo, che tutto sia possibile.


Cosa penserebbe Tolkien se avesse visto i suoi film?


Prova a immaginare il vecchio professore, quello con la pipa e lo sguardo bonario, seduto in un cinema moderno, affogato nel rumore dei popcorn e delle bibite gassate. Starebbe lì, con la schiena dritta e gli occhi che si accendono e si spengono, come se cercasse una versione visiva di quei mondi che lui aveva sempre visto dentro la testa. Vedrebbe Hobbit paffuti, Elfi dai capelli setosi e stregoni troppo puliti per essere veri, e forse scuoterebbe il capo. Non perché i film siano brutti, ma perché, in fondo, nessuna pellicola può catturare fino in fondo l’anima delle sue lingue.


Lui voleva che ogni parola avesse un peso, un significato ancestrale. Nel buio della sala, si accorgerebbe che certe frasi elfiche, tradotte di fretta, suonano un po’ come un jingle pubblicitario. Ma poi, quando sullo schermo compare la natura sconfinata delle Terre di Mezzo, quando la telecamera abbraccia i picchi innevati, le foreste buie e le distese verdi, forse gli si inumidirebbero gli occhi. Potrebbe accendersi la pipa e far spallucce, pensando: “Be’, non è proprio quello che avevo nella mia testa incasinata, ma almeno la gente si è innamorata di una storia che, tutto sommato, voleva essere proprio questo: un invito a sognare”.


Magari, uscendo, si lamenterebbe per qualche cambio di trama. Direbbe che certe cose non andavano toccate, come uno che si lamenta del vino annacquato dal barman. Eppure, nel profondo, ne sarebbe un po’ contento. Perché in quella sala ci sono centinaia di persone che, se anche solo per un paio d’ore, hanno smesso di pensare alle bollette da pagare, e si sono persi in un’avventura che profuma di epica e di nostalgia. E, sotto sotto, Tolkien l’avrebbe preso come un complimento: riuscire a strappare la gente dalle catene della realtà è già un miracolo. E questo, in fondo, è lo stesso miracolo che faceva lui, notte dopo notte, con i suoi appunti e le sue lingue immaginarie.


 

Il signore degli anelli
Immagine generata con AI
Città incantate
Immagine generata con AI
 

Quanto ti invidio, vecchio Tolkien. Tu hai plasmato interi universi, hai fatto crescere boschi di parole che io, probabilmente, non vedrò mai germogliare sulla mia pagina. E sai cosa? Fa un male cane ammetterlo. Dev’essere un brutto pensiero per chiunque si illuda di scribacchiare qualcosa di decente, sentirsi schiacciato da un gigante che si fuma la pipa mentre inventa lingue elfiche. Forse esagero, ma almeno una cosa l’ho capita: grazie a te, ho imparato che sognare nuovi mondi non è un lusso, ma un dannato diritto di chiunque abbia un briciolo di follia addosso. E così, con un po’ di invidia e un po’ di rabbia buona, continuo a scrivere, sperando che un giorno le mie parole possano anche solo sfiorare la bellezza che tu hai consegnato all’eternità.

Comments


bottom of page