
Un libro che si vive, non si legge
Ci sono libri che si leggono e libri che si abitano. Shantaram di Gregory David Roberts è uno spazio interiore, un’esperienza totale, un’odissea che assorbe e trasforma il lettore. Non è solo un romanzo, ma un universo, un labirinto di emozioni, di verità e menzogne, di fughe e ritorni, di amore e disperazione
.
L’ho letto due volte. Non per caso.
Non perché non avessi altri libri da leggere, non perché non ricordassi la storia, non perché cercassi qualcosa di nuovo tra le sue pagine. L’ho letto due volte mentre ero a Milano, nella Red di Piazza Gae Aulenti, perché Shantaram non è solo una storia: è un viaggio che cambia a seconda di chi sei nel momento in cui lo intraprendi.
La prima volta l’ho letto con la fame di chi cerca avventura, con l’adrenalina di chi vuole perdersi nelle strade di Bombay, vivere la città attraverso gli occhi di Lin, sentire l’odore del chai nei vicoli stretti, il caldo soffocante degli slum, la voce della folla nei bazar. E l’ho trovato.
La seconda volta l’ho letto con un altro sguardo, più consapevole, più pesante forse. Quello che cercavo non era più il viaggio, ma il senso di appartenenza.
E ancora una volta, Shantaram mi ha trovato lui.
Quando lo leggi, non sei più solo uno spettatore: sei dentro Bombay, senti l’odore del chai e delle spezie nei vicoli umidi, la voce della folla nei bazar, il ronzio dell’umanità che si muove incessante. Senti il dolore, la fuga, la redenzione. E alla fine, quando lo chiudi, non sei più lo stesso di quando l’hai aperto.
Una storia di fuga e di rinascita
Gregory David Roberts non ha scritto un libro: ha scritto la sua vita.
Fuggito da un carcere di massima sicurezza in Australia, con una condanna per rapine a mano armata alle spalle, atterra in India con un passaporto falso e il cuore in pezzi.
A Bombay trova una nuova casa, una nuova identità, una nuova possibilità. E mentre scivola tra i mondi della città, scopre la sua umanità proprio nel caos, nelle contraddizioni, nella violenza e nella compassione di una terra che non giudica ma accoglie.
Si ritrova a vivere in uno slum, dove diventa una sorta di medico per i poveri, imparando a curare le ferite più profonde di chi non ha nulla. Ma Bombay è una città con mille volti, e la stessa strada che porta alla redenzione porta anche alla dannazione.
Così, il protagonista si ritrova coinvolto nella mafia indiana, nei traffici di droga, nelle guerre di potere, nei giochi spietati di un mondo in cui la moralità è un lusso che pochi possono permettersi.
E in mezzo a tutto questo, c’è l’amore per Karla, una donna che è mistero, desiderio e tormento, una presenza che lo attrae e lo respinge, che lo salva e lo distrugge.
"Shantaram" è una storia di perdizione e di salvezza, di scelta e di destino. È una storia che attraversa il dolore per trovare la bellezza più autentica.
La scrittura: tra epica e confessione
Ciò che rende Shantaram unico è lo stile di Roberts. Non è solo un romanzo d’avventura, né solo un memoir, né solo un trattato filosofico. È tutto questo insieme.
La scrittura è immersiva, poetica, ipnotica. Roberts ha un occhio cinematografico e un’anima da poeta:
Le descrizioni di Bombay sono così vivide che sembra di sentirne il respiro.
I dialoghi sono taglienti, carichi di filosofia e ironia, come se ogni personaggio avesse un’idea precisa della vita e volesse condividerla con te.
Le riflessioni sono profonde, quasi mistiche, capaci di fermarti a ogni pagina per costringerti a pensare, a mettere in discussione ciò che credevi di sapere.
Eppure, il romanzo non è perfetto. A volte Roberts si perde nei suoi stessi pensieri, a volte dilata il racconto fino all’eccesso, a volte si lascia andare a una certa autoreferenzialità.
Ma è proprio questa imperfezione a renderlo così dannatamente vero. Perché la vita non è mai perfetta, e "Shantaram" è la vita stessa.
Bombay: protagonista invisibile
Se c’è un personaggio che domina il libro, più di Karla, più di Lin (il protagonista), più della mafia, più della fuga, è Bombay.
Bombay è viva, feroce, sensuale, crudele, accogliente e spietata. È un crocevia di destini, un mostro che inghiotte e un ventre che genera nuove possibilità.
Non è la Bombay da cartolina, né la Bombay dei turisti: è la città dei bassifondi, delle strade piene di disperati, di slum e palazzi, di ricchezze inimmaginabili e povertà assoluta, di risate e di pianti, di tradimenti e fedeltà incrollabili.
Roberts non la descrive con distacco: la vive, la ama, la soffre. E lo stesso fai tu, leggendo.
Il cuore del libro: identità e redenzione
A livello profondo, Shantaram è una ricerca di identità.
Lin è un uomo senza patria, senza volto, senza radici.
È un criminale in fuga, ma è anche un uomo in cerca di redenzione.
È un uomo che trova la sua famiglia tra i reietti di Bombay, ma che non smette mai di sentirsi un outsider.
È un uomo che si innamora, ma che è destinato a perdere.
È un uomo che cerca Dio, ma trova solo la sua ombra.
La sua storia è il tentativo disperato di diventare qualcuno di nuovo, di cancellare il passato senza rinnegarlo, di trovare un senso nel caos.
Ed è qui che Shantaram colpisce nel profondo: perché tutti, in qualche modo, siamo alla ricerca di un posto nel mondo. Tutti, almeno una volta, abbiamo voluto scappare da noi stessi. Tutti abbiamo sperato che, da qualche parte, esistesse un luogo che potesse accoglierci per quello che siamo, senza giudicarci.
Perché leggere Shantaram?
Perché non è solo una storia, è un’esperienza.
Perché ti costringe a guardare dentro te stesso, a mettere in discussione le tue certezze, a perderti nelle domande senza risposte.
Perché è un romanzo che non assomiglia a nessun altro, una fusione di avventura, filosofia, amore, crimine, misticismo e viaggio.
Perché ci ricorda che la vita è fatta di errori, ma anche di possibilità infinite.
E perché quando lo chiudi, senti di aver vissuto davvero.
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