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Parigi anni '20: un ricordo sospeso tra sogno e realtà

Immagine del redattore: Gerardo FortinoGerardo Fortino

Parigi anni '20
Immagine generata con Ai

Una notte d'inverno nella Parigi anni '20, tra bistrot, nostalgia e un bacio indimenticabile


Parigi anni '20: Fu così che mi sentii la prima volta che arrivai a Parigi, vagabondando senza meta per quelle sue strade umide di pioggia e nostalgia, impregnate di un romantico decadimento che solo questa città sembrava possedere. Parigi mi accolse con la stessa grazia languida che riservava ai suoi abitanti di sempre, a quelli che la vivevano più come amanti che come cittadini. Mentre camminavo, ogni vicolo stretto e ogni boulevard illuminato mi sussurrava di una Belle Époque ormai sfuggita al presente, un'era in cui l'arte era libertà senza limiti, un talento tormentato che si misurava in lampi di genialità e follia, anziché in fugaci numeri di una popolarità effimera.


In una notte d'inverno, infine, varcai la soglia di un piccolo caffè, un rifugio caldo dal freddo pungente. I divani, rossi come le labbra di una donna dopo troppi bicchieri di vino, accoglievano con seducente pigrizia. Presi posto senza conoscere nessuno, ordinai un calice di rosso per confondermi al ritmo discreto della città e osservai, oltre la sala, un pianista che sfiorava con eleganza nostalgica i tasti d'un pianoforte un po' stonato.


Fu allora che le vidi, sedute proprio davanti a me, immerse in un vortice di risate vivaci e brindisi rumorosi. Un gruppo di giovani donne parigine, snelle e sicure, con occhi lucidi d'alcol e ambizioni indefinite. Parlavano con l'intensità tipica di chi è abituato a non dover contenere la propria felicità, né tantomeno le proprie malinconie. Il mio francese era stentato, ma abbastanza buono per riconoscere una battuta spiritosa; risi involontariamente, catturando la loro attenzione come un forestiero inaspettato che improvvisamente diviene parte del quadro. Uno scambio di sguardi, una battuta esitante pronunciata con il mio incerto accento straniero, e d'un tratto ero con loro, accolto nel loro cerchio di ebbre confidenze e leggerezze.


Nel frattempo, da una sala accanto, giungeva una melodia dolce, fluttuante nell'aria come fumo di sigaretta. Le note erano fragili e malinconiche, lievemente sfiorate da una nostalgia elegante; sembravano raccontare di una Parigi idealizzata, sognata più che vissuta, fatta di lampioni dorati e notti lente trascorse a cercare amore e ispirazione. Era una musica dolceamara, una colonna sonora perfetta per anime inquiete che desiderano una libertà mai pienamente raggiunta.


Più tardi, perso nei miei pensieri mentre vagavo per tornare a casa, sentii pronunciare il mio nome con quel tipico accento francese: «Hey, hey, Gerardo». Mi voltai e vidi una delle ragazze del locale, sorridente e audace. Non ricordo cosa ci siamo detti, ma ricordo chiaramente il bacio che seguì. Non fu un gesto timido o delicato, ma un bacio universale, viscerale, carico di un desiderio così intenso da risultare bruciante. Era un bacio colmo di allusioni, di un'intensa sensualità implicita, sufficiente a saziare la notte senza bisogno d'altro.


In quel momento capii che forse ogni città è destinata ad essere più bella nella memoria che nella realtà vissuta. Ma in quel momento, in quella Parigi irreale eppure così tangibile, la felicità non sembrava appartenere solo al passato, ma era lì, tangibile ed effimera, sospesa tra il mio bicchiere di vino rosso e le risate di quelle splendide sconosciute. Era, per quanto breve, il mio frammento di Belle Époque.


 

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