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Maschere per un massacro di Paolo Rumiz: la verità scomoda sulla guerra in Jugoslavia

Immagine del redattore: Gerardo FortinoGerardo Fortino

Maschere per un massacro

Un libro che demolisce la propaganda e costringe a guardare negli occhi l’orrore


Ci sono guerre che finiscono e guerre che non finiscono mai. La guerra in Jugoslavia è una di quelle che, per molti, non è mai davvero terminata.


E ci sono libri che raccontano i conflitti con distacco, e libri che li fanno esplodere in faccia, senza filtri, senza eufemismi, senza attenuanti. Maschere per un massacro di Paolo Rumiz appartiene alla seconda categoria.


È un libro che non si legge: si subisce. È un viaggio negli abissi dell’odio etnico, della propaganda, della complicità internazionale, di ciò che l’Europa ha finto di non vedere mentre una nazione si dissolveva nel sangue.


Rumiz non scrive per rassicurare. Scrive per distruggere le illusioni, per svelare le colpe taciute, per costringere il lettore a guardare negli occhi ciò che non abbiamo voluto sapere. E una volta che entri in questo libro, non ne esci più uguale a prima.

 

La Jugoslavia: una guerra vicina eppure ignorata


Per molti europei, la guerra in Jugoslavia è stata un rumore di fondo negli anni ’90. Le immagini di Sarajevo sotto assedio, i reportage dai Balcani, le notizie di stragi e pulizie etniche scorrevano nei telegiornali come un incubo lontano, qualcosa di barbaro che accadeva "là", tra popoli che si odiavano da sempre.


Ma la verità era un’altra. Quella guerra non è stata un destino inevitabile, non è stata un'esplosione spontanea di odio ancestrale. È stata costruita, fomentata, guidata da chi aveva interesse a frantumare un paese e riscriverne la geografia politica nel sangue.


E, soprattutto, è stata raccontata con una semplificazione vergognosa.


La narrazione ufficiale voleva un colpevole assoluto e delle vittime assolute. Ma Rumiz smonta questa favola e mostra un conflitto in cui nessuno è innocente, in cui tutti hanno usato la violenza, in cui il vero mostro è stata la macchina della propaganda che ha reso possibile l’orrore.

 

Un giornalismo che si sporca le mani


Paolo Rumiz non ha raccontato la guerra da un ufficio stampa. L’ha vissuta sul campo, tra le macerie, nelle trincee, nelle città fantasma, tra i profughi, nei bar dove paramilitari ubriachi confessavano le loro atrocità come se fosse la cosa più normale del mondo.


Le pagine di questo libro non sono fredde analisi geopolitiche, ma il racconto di chi ha visto gli uomini diventare bestie, di chi ha stretto le mani di chi aveva appena ucciso, di chi ha sentito il puzzo dei cadaveri nelle fosse comuni prima che le Nazioni Unite decidessero di riconoscerne l’esistenza.


E proprio per questo, Maschere per un massacro è un libro insopportabile.


Perché non lascia scampo, perché non concede conforto, perché costringe a guardare in faccia la guerra per quello che è: un’oscenità in cui non esiste onore, ma solo crudeltà, avidità, menzogna.

 

Le tre colpe dell’Occidente: ipocrisia, ignoranza, complicità


Uno degli aspetti più devastanti del libro è la denuncia del ruolo dell’Occidente.


1. L’ipocrisia: la comunità internazionale ha parlato di pace mentre armava i contendenti. Ha invocato il dialogo mentre lasciava massacrare Srebrenica sotto gli occhi dei caschi blu. Ha parlato di diritti umani mentre chiudeva gli occhi davanti alle fosse comuni.


2. L’ignoranza: i media occidentali hanno dipinto il conflitto con schemi semplicistici. "I serbi sono i cattivi, i croati e i bosniaci le vittime". Ma la realtà era più complessa, più sporca, più sfaccettata. Rumiz mostra come tutti abbiano avuto le mani sporche di sangue, come il nazionalismo abbia infettato ogni fazione, come la storia sia stata manipolata da ogni lato.


3. La complicità: il libro smaschera le responsabilità di chi ha lasciato che il massacro accadesse, di chi ha trattato la dissoluzione della Jugoslavia come una questione burocratica, di chi ha fatto finta di non sentire i racconti delle violenze etniche, degli stupri di massa, delle città rase al suolo.


E il risultato è stato un genocidio nel cuore dell’Europa, mentre l’Europa guardava altrove.

 

Uno stile che taglia come un coltello


Rumiz scrive come se sputasse sentenze scolpite nella pietra. Il suo stile è duro, crudo, spietato. Non cerca di "abbellire" il dolore, non attenua la brutalità, non cerca di salvare la coscienza del lettore.


Ogni frase pesa come un macigno. Ogni paragrafo è una pugnalata.


Questo non è un libro per chi cerca una lettura rassicurante. È un libro che sporca le mani, che lascia addosso un senso di nausea, di vergogna, di impotenza. Ma è proprio per questo che è un libro necessario.

 

Perché leggere Maschere per un massacro oggi?


  • Perché la guerra in Jugoslavia non è solo passato. Le sue ferite sono ancora aperte, le tensioni etniche non sono mai state davvero sanate, il nazionalismo che ha distrutto quella terra non è morto, ma si è solo trasformato.

  • Perché smonta la propaganda di ieri e aiuta a riconoscere la propaganda di oggi. In un mondo in cui la verità viene manipolata ogni giorno, questo libro insegna a diffidare delle narrazioni semplicistiche, a scavare sotto la superficie, a mettere in discussione la versione ufficiale dei fatti.

  • Perché è una lezione di giornalismo vero. Rumiz dimostra cosa significa essere un reporter sul campo, non un ripetitore di comunicati stampa.

  • Perché ci riguarda tutti. Questa non è solo la storia della Jugoslavia. È la storia di ogni guerra, di ogni conflitto in cui gli uomini si convincono che l’altro sia il nemico e che il massacro sia inevitabile.

 

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